dimenticato da dio

Da fuori non ho idea di quello che mi aspetta. Una voce svogliata da lontano mi da il benvenuto, mentre una musica hawaiana fa da sottofondo. La signora di fianco al mio tavolo ha la testa appoggiata all’indietro sul divano, un pacchetto di sigarette ancora da aprire, adagiato sopra un manga del quale non riesco a decifrare il titolo.

Dopo averla servita, la cameriera si gira verso di me : hai deciso? occhi vuoti, un viso segnato dagli anni e da ore di sonno da recuperare. La sua maschera anticipa già tutto ciò che lei vorrebbe dire : cosa ci faccio qui ? quando finirà tutto questo? perché alla mia età, sono costretta a vestirmi cosi? perché sto per servire uno straniero in un posto del genere, dimenticato da dio?

Mentre aspetto, la mia attenzione si sofferma su dei fiori di plastica hawaiani, sbiaditi da una lampada ad olio incandescente, sistemati alla meno peggio sopra una specie di altare in mezzo alla sala. Centimetri di polvere accatastata. Sembra non si aspetti altro che un controllo da parte di qualcuno, per far si che tutto questo possa finire al più presto. Mi volto e vedo presumibilmente il proprietario del bar O. che legge il giornale, seduto dietro al bancone. Non parla, non accoglie, non fa. Quand’è che le cose sono iniziate ad andare a rotoli ? Qual’ era il suo obiettivo, quando quaranta anni fa ha deciso di aprire un bar che richiamasse le atmosfere rilassate di Waikiki, nel mezzo della campagna giapponese ? Il mio caffè, o qualcosa di simile che ormai mi sono abituato ad accettare, non arriva. Ci vorrà del tempo, penso tra me e me. Noto che tutti i clienti sono persone anziane. Tutti. Noto che tutti i clienti sono persone anziane, sedute da sole, in attesa che il tempo passi. C’è chi fuma, chi guarda il pavimento, chi spera ancora che il suo cavallo prima o poi possa vincere, c’è chi cerca tra gli appunti di un diario il codice per sbloccare il suo telefono.

La musica stona tantissimo con l’ambiente e quei fiori finti e sporchi sono un segno che è giunto il momento che me ne vada da qui. Il caffè arriva. Mi sembra quasi di intravedere una sorta di sorriso formarsi sul volto della cameriera. Non è così. Pago qui ? Si paga in cassa. Sarebbe stato un piccolo passo per velocizzare la mia fuga. Bevuta anche solo mezza tazza, sarei uscito immediatamente, senza dire parola, solo con un cenno del capo. Perso nei miei pensieri, mi accorgo che la signora di fianco a me mi fissa. Sei americano? Non sono americano, sono italiano. Aah, amo l’ Italia, non ci sono mai stata, ma un giorno vorrei andarci. Se ne avesse l’opportunita, la visiti. Taglio corto. Di mio mi da fastidio parlare con gente che non conosco e che so non essere realmente interessata a sapere qualcosa su di me, ma che per un ovvio motivo, si ritrova a farmi sempre la stessa domanda.

Pago. Non ci scambiamo nessuno sguardo. Ho preparato i soldi contati, affinche succeda tutto il piu rapidamente possibile. Ti aspettiamo di nuovo. Fuori ritrovo il clima che ho lasciat mezz’ora prima. Agosto da queste parti è veramente una sfida che alcune persone finiscono per perdere. Prima di iniziare a sudare, ho il tempo di verificare l’orario del prossimo autobus che riuscirà a portarmi via da qui, fino alla stazione dei treni. Seduto nell’ultima fila, con il condizionatore sparato a mille (sono conscio del fatto che qui non sistono le mezze misure), ripensando alla situazione di qualche momento fa, un pensiero mi fa irrgidire: ho davvero la sicurezza che un giorno non sarò uno di quelli al quale passeranno il loro testimone?

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